Il C.S.V. di Taranto, che nel mese di marzo scorso ha sottoscritto con la Casa Circondariale di Taranto e l’UEPE di Taranto un Protocollo d’Intesa finalizzato a favorire il reinserimento sociale delle persone condannate a scontare una pena attraverso il coinvolgimento diretto del volontariato e degli enti di terzo settore, ha intervistato la sociologa e scrittrice tarantina Anna Paola Lacatena, chiedendole di raccontare la realtà carceraria che è stata oggetto del suo ultimo lavoro scritto con il Comandante Lamarca.

Di seguito è possibile leggere l’intervista integrale; un suo estratto è stato pubblicato e diffuso nelle pagine locali all’interno del N. 9 della Rivista Volontariato Puglia, realizzata dai CSV pugliesi.

2017-06-14-PHOTO-00000017Il carcere, oggi, è ancora lontano dall’accogliere pienamente il dettame costituzionale (art. 27) per il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.»
Per uno Stato di diritto, infatti, con il termine rieducazione si dovrebbe intendere il ravvedimento cosciente, nonché la possibilità di reinserimento nella società.

La Riforma dell’Ordinamento penitenziario, promulgata con la Legge n.354 del 26 luglio 1975, ha ulteriormente precisato che la pena non deve in alcun modo offendere né mortificare la dignità dell’uomo. Affinché il processo di reinserimento si compia con successo, è necessario, però, tenere vivo il contatto tra il detenuto e la società esterna.

Troppo spesso invece il carcere continua a ricalcare la traccia assegnata dal sociologo americano Erving Goffman alla cosiddetta istituzione totale, ossia: tutte le fasi della vita sono vissute nello stesso luogo e sotto il controllo di una sola autorità; ogni fase dell’attività quotidiana, strettamente programmata, si svolge alla presenza immediata di un folto gruppo di persone che sono trattate nello stesso modo e che devono eseguire tutte assieme le stesse azioni; le varie attività imposte compongono un singolo piano disegnato per conseguire gli scopi ufficiali dell’istituzione.

Al di là di ogni intervento espressamente tecnico e normativo, sarebbe necessario rivedere l’intero sistema dell’attenzione e dell’ascolto alle esigenze e ai bisogni del detenuto. Così come non meno imprescindibile sarebbe provare a dare loro parola rispetto al dolore interno e alla credibilità del vissuto, soprattutto nelle prime fasi della carcerazione, attivando percorsi di rielaborazione del bagaglio individuale, socio-culturale e del reato.

Inoltre sarebbe opportuno: incentivare il lavoro e la percezione dell’utilità e della riparazione attraverso la pena, implementare la relazione con il mondo esterno (a cominciare dalla famiglia), incrementare la formazione del detenuto con corsi scolastici e percorsi professionalizzanti con un’attenzione particolare al mondo della detenzione al femminile.

Secondo il sociologo Zigmund Bauman, invece, sembra un po’ come se la sicurezza passasse per durezza della pena, per l’esclusione del reo dalla vita reale, per il disimpegno rispetto alla necessità di risposte ed interventi anche e soprattutto di tipo preventivo rispetto alla devianza, al reato, alla possibile recidiva.
Per lo studioso di origini polacche le nuove prigioni non sono neppure più luoghi coatti di disciplina ma contenitori chiamati ad assicurare la completa immobilizzazione degli esclusi dal centro del sistema sociale, il tutto in piena sintonia con quanto avviene nei cosiddetti non-luoghi delle periferie urbane e dei quartieri dormitorio.

Dopo “Resto umano” (Chinaski Edizioni, Genova, 2014) arriva “Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi” (Carocci, Roma, 2017), scritto con il Comandante del Reparto di Polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Taranto, Giovanni Lamarca.
Perché impegnarsi in questo racconto?

Rispondo citando ancora il sociologo Bauman, scomparso di recente ma tra le voci più rappresentative della sociologia mondiale: «I sociologi se vogliono essere all’altezza della propria missione, non devono limitarsi a condurre studi “oggettivi” e quantificabili come i fisici e i geologi, ma devono invece guardare al vissuto più intimo delle persone e, entrando in conversazione con loro, aiutarle a comprendere come le loro vicende umane vissute singolarmente si riflettono in contesti sociali più ampi e ne siano irrimediabilmente influenzate. Perché a questo, in fondo, la sociologia serve, ad aumentare la consapevolezza delle persone e, in tal modo, la loro libertà.»
Non ho la pretesa di rendere libere le persone ma cerco di non venir meno al mandato di una disciplina straordinaria come la sociologia, con la curiosità di provare a conoscere di più e magari di far conoscere di più storie, situazioni, angoli di vita normalmente poco illuminati.

Cosa vuol dire davvero essere reclusi?

Sono convinta possano davvero dire di conoscere la realtà della detenzione solo quanti l’hanno sperimentata o la sperimentano direttamente sulla propria pelle. Non faccio riferimento solo ai detenuti, penso anche alle tante persone che quotidianamente lavorano all’interno degli istituti. È carcere anche per loro.
Con il libro “Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi” e più ancora con l’allestimento artistico de “L’altra città” abbiamo provato a stabilire un dialogo tra chi è dentro e chi è fuori con la convinzione che comunque parliamo di un’unica società, di una stessa città.
Spesso abbiamo paura delle persone condannate, di quanti sono detenuti, ho scoperto, e già da qualche tempo, che anche noi facciamo paura a loro. Quando ci permettiamo di voltare le spalle con disinteresse, quando a loro offriamo solo pregiudizio e indifferenza.

C’è una storia che la ha colpita particolarmente?

Faccio fatica a ricordare i nomi ma non dimentico i volti e più ancora le storie. Per quella che è la mia formazione e per la mia esperienza posso dire che difficilmente persone che hanno alle spalle belle storie di vita finiscono in carcere. C’è spesso un punto di rottura quando non un accumulo di dolore, un ambiente particolare, forme di disadattamento, deprivazioni, violenze.
Ci sono tante storie che mi hanno colpita particolarmente. Sono convinta che il male esiste e, spesso, si fa sentire a gran voce, ma anni fa Don Andrea Gallo mi ha insegnato che la speranza sa urlare ancora più forte.

Qual è il ruolo del volontariato e del terzo settore dentro e fuori dal carcere per i detenuti e le loro famiglie? Può contribuire a creare un ponte?

Il volontariato e il terzo settore sono una risorsa straordinaria rispetto ai detenuti e alle loro famiglie. L’esperienza de “L’altra città” mi ha permesso di conoscere tanti di loro e, permettetemi di aggiungere, che tutti quelli che hanno lavorato a questo progetto l’hanno fatto a titolo gratuito da Achille Bonito Oliva, curatore con l’ideatore e curatore dell’iniziativa Giovanni Lamarca, commissario del Reparto di Polizia penitenziaria della Casa circondariale di Taranto, a tutti gli agenti penitenziari in pensione e tante altre persone.
C’è un volontariato ufficiale e uno che si muove senza appartenenza. Il primo riceve, o dovrebbe essere così, una preparazione adeguata all’area del disagio a cui si rivolge. Il secondo è quello delle persone che vivono il proprio impegno per l’Altro forti solo del loro essere un individuo morale.
Sanno farsi ascolto e sostegno, cercano di corrispondere a bisogni materiali, mettono a disposizione le proprie competenze ed esperienze. Sono presenti come testimoni di una società che non li dimentica. La gentilezza, la disponibilità, la pazienza e il crederci di tanti volti che sanno ricucirsi spazi da offrire alle persone in difficoltà sono un messaggio da far arrivare ai detenuti e alle loro famiglie da cui non si può prescindere.
Quando, poi, si è consapevoli di fare volontariato non solo nello stare vicino al detenuto e alla famiglia ma anche nel rendere l’ambiente migliore, nel poter offrire delle opportunità, nel lavorare sulla cultura condivisa, lontani dalla trappola, sempre in agguato, del proprio narcisismo, dalla vista e dal grazie ufficiale e diretto della persona che vive il disagio, allora il mio personale chapeau…

Un’ultima domanda, che ci dice de “L’altra città”?

Solo grazie a chi mi ha permesso di essere parte del progetto, a chi allo stesso ha lavorato, a chi ha percorso l’allestimento…
Mi rimane soprattutto il lavoro svolto all’interno di quattro laboratori realizzati con le detenute da cui è scaturito il mio contributo per il libro fotografico “L’altra città”, i cui ricavi per nuovi progetti andranno all’Associazione “Noi e voi” senza l’impegno fattivo della quale non ci sarebbe stata l’iniziativa.
All’interno di “Noi e voi” e del ristorante “Articolo 21” ho trovato una disponibilità e una cordialità fuori dal comune. Aver conosciuto e apprezzato alcuni di loro ha arricchito il mio bagaglio di nuova bellezza.
Se me lo permettete, provo a chiudere riprendendo un passo proprio dal libro fotografico: «Sono detenute ma prima ancora donne, madri, mogli.
Una di loro mi comunica di essere in procinto di diventare nonna per la seconda volta.
È una bambina la nascitura. È di bambina il suo sorriso triste.
Mi dici che non potrai esserci quando tua figlia partorirà ma stai tranquilla nessuno potrà portarti via il tuo diventare nonna.
E già che ti chiami proprio Rosa…
Mi sembrano belle.
Di una bellezza che invoca luce, però.
I loro occhi rivendicano silenziosamente, ma con insistenza, un respiro nuovo per arrestare quello che mi appare come uno sfiorire non incontrovertibile.
Chi potrebbe farne a meno?
Forse alla rinuncia ci si abitua più facilmente se si è conosciuto poco il Bene e il Bello.»

Grazie mille

Grazie a voi e a quello che fate affinché il volontariato sia sempre di più, nel nostro territorio e per chiunque, una realtà viva e partecipe.